Carlo Vercelli. Il colore come un’onda che sale
di Alessandra Redaelli
Il colore ti cattura, ti ipnotizza, ti travolge. La lettura delle immagini, dentro, avviene in un secondo momento, quando le emozioni, in qualche modo, si acquietano. Perché i dipinti di Carlo Vercelli toccano le sensazioni, prima del cervello: fanno battere il cuore.
Mark Rothko ne aveva fatto il senso stesso della sua missione: togliere tutto quello che poteva distrarre lo spettatore dalla pura emozione, creare con la pittura un ponte magico che dal suo cuore di artista arrivasse dritto a quello dello spettatore. Via il segno della pennellata, via la materia pastosa della pittura: solo colore che avanza, che dilaga, che invade i sensi. Un percorso non dissimile da quello di un’altra grandissima dell’espressionismo astratto, Helen Frankenthaler. Lei aveva inventato un metodo unico per dare alla sua pittura un carattere acquatico e trasparente: lo aveva chiamato “imbibizione a macchia” e lo otteneva diluendo l’olio con la trementina fino a renderlo simile all’acquerello per poi farlo sgocciolare sulla tela stesa a terra attraverso una lattina con un buco nel fondo. Dopo, con la spugna e con il pennello, prendeva a domare quella sorta di lago, calma, controllata, lasciando che la materia seguisse strade proprie, preparandosi ad accettare che il dipinto potesse rivelarsi sotto i suoi occhi secondo logiche inaspettate e sorprendenti.
Carlo Vercelli però è un artista del suo tempo. Per quanto si dichiari figlio della tradizione dell’espressionismo astratto, lui ama la figura, ama lo svolgersi sulla tela di una narrazione. E in effetti, quando ci riprendiamo dal primo stordimento e sbattiamo gli occhi, incominciamo a vedere che dentro quell’onda montante un mondo si muove. Sono sagome così leggere che all’inizio si fa fatica a intravederle. Ma poi, piano piano, in un gioco di scoperta, ci rendiamo conto che in pochi tratti di pennello riescono a raccontarci storie. Sono storie di solitudini e di attese, di meditazioni, qualche volta di incontri. A volte è necessario guardare l’opera una seconda, una terza volta per rendersi conto che quella pennellata è il profilo di una schiena, o che quella macchia nera piccola, piccolissima, è una figura seduta con le ginocchia al petto. Si muovono su scenari misteriosi costruiti in più piani, su prospettive le cui regole si perdono in una matematica aliena, che non ci appartiene e che tuttavia, con il cuore, in qualche modo comprendiamo. Leggiamo sul fondo il profilo di un albero, la cima, forse, di una montagna coperta dalla neve. Inventiamo un prato, una panchina, una scala, una cupola bizantina, un toro selvaggio e il rudere di una torre di avvistamento su un promontorio. Il nostro cervello parte in una cavalcata onirica che dalle macchie di Rorschach (un test psicologico usato per leggere la personalità attraverso l’interpretazione di forme astratte) in un percorso di libere associazioni ci porta un po’ più in profondità dentro noi stessi. Proviamo un piacere vago, un appagamento, come se incontrassimo qualcosa che stavamo aspettando. E intanto ci rendiamo conto di quella linea di contorno sottile, precisa, mai casuale, messa lì a contenere la potenza di un colore che altrimenti potrebbe esplodere, invadere tutto quanto. Intorno, a isolare quel nucleo di pura poesia da tutto il resto, lo spazio bianco, vergine, intatto.
Carlo Vercelli ama la pittura. La ama profondamente, visceralmente. Eppure in quel suo procedere caldo, travolgente, che appare dominato dall’istinto, c’è una forte componente di progetto che gli permette di mantenere il controllo sul proprio lavoro e di porsi sempre in perfetto equilibrio tra esprit de finesse e esprit de géométrie, tra cuore e ragione. Basti pensare alla genesi delle sue opere. Ognuno dei suoi oli su tela nasce infatti dall’evoluzione di un acquerello dove Vercelli – lì sì – si abbandona al gusto puro della pittura, alla gioia selvaggia del colore dilagante. Poi, trasferita la base iniziale sulla tela, ecco l’intervento a olio, il dettaglio, la possibilità di un nuovo punto di vista.
Definiti da titoli che permettono allo spettatore di dare una direzione alla lettura dell’opera, senza mai però imporgli un’interpretazione precisa, questi dipinti dell’ultimo periodo sono l’esito più recente di un lungo percorso di ricerca intorno al colore e alla figura. Un percorso per tappe di crescita nette, diverse una dall’altra a tuttavia profondamente coerenti. Se è vero che nei paesaggi degli anni Ottanta e Novanta l’artista avvertiva una maggiore esigenza di riempire la tela, di costruire l’ambientazione per prospettive e tagli tradizionali, ci sono alcuni pezzi (una commovente Deposizione del 1984, un Barbiere di Siviglia del 1985, isolato e statuario come un Innocenzo X di Francis Bacon) che hanno già in sé il seme della pennellata ampia e potente degli ultimi lavori. E il cammino procede nel tempo seguendo un criterio di semplificazione formale finalizzata ad arrivare al nucleo, all’essenza. Nei primi anni Duemila le figure emergono da fondi graffiati, ridotte a pochi segni che però sono in grado di rendere la soda consistenza di un giovane corpo femminile così come l’espressione di una pacata malinconia. Figure solitarie, magari appena accennate in un profilo che se concede alla parte superiore del corpo la definizione del dettaglio poi va sciogliendosi, scomparendo in un intrigante non finito. Sono ritratti psicologici colmi di empatia, dove è sufficiente la curvatura di una spalla per comunicare la sensazione di un’insostenibile stanchezza e dove tra le colature di uno sfondo tutto giocato sui bianchi – quasi un d’après da Berthe Morisot – una tenda morbidamente legata da un nastro ci permette di avvertire la consistenza stessa del tessuto.
La figura femminile domina, non tanto e non solo nel solco di una tradizione che vede la donna – anche attraverso il nudo – come una delle protagoniste naturali della pittura: si percepisce in Carlo Vercelli una sorta di omaggio, uno sguardo amoroso frutto di vicende famigliari che gli fa leggere il femminile con un’empatia rara, con una preziosa capacità di penetrarne la psiche.
Tra il 2017 e il 2020 gli sfondi vanno via via liberandosi dalla connotazione ambientale per dare vita a una galleria di ritratti a figura intera che emergono come personaggi di una commedia, figure in cerca d’autore rese in pochissimi colpi di pennello, con un’economia cromatica e una trasparenza che ne fanno spesso presenze fantasmatiche, evanescenti, quasi evocazioni. Se nella Flagellazione del 2018 c’è ancora un cielo a cercare di consolare la figura solitaria, le braccia ingoiate dal corpo come in una mutilazione, Elisabetta (2019) è un’unica colata di verde da cui emerge solo il viso, dettagliatissimo, però, fino al make up e alla forma dell’orecchino. Se Agata e Il fumatore (entrambi del 2019) lasciano alle sole colature del bitume il compito di indicarci una sagoma – e sono sagome che ci parlano di abiti antichi, di gonne gonfie e di eleganti redingote – Margot (2020) è solo un viso che emerge per macchie, quasi una sindone, e il Dandy (sempre 2020) è un’unica pennellata che si aggroviglia su se stessa, ma così limpida nel suo percorso da permetterci di scorgere una testa e un braccio piegato.
Da questa totale padronanza del mezzo nascono le visioni che ci incantano oggi, le dilaganti macchie di colore che ci ipnotizzano nella ricerca di un dettaglio capace di offrirci una spiegazione, il bandolo della matassa che ci conceda una possibile lettura, un percorso per entrare. Ecco allora Il calvario dell’artista, dove la suggestione della crocifissione è consolata dall’oro e dal rosso; ecco Scenografia, dove le quinte aperte di un teatro ci lasciano immaginare Giuliette in attesa alla finestra o Arlecchini danzanti; ecco la muleta rossa nelle mani di un torero in España; ecco una figura femminile fragile, delicata, forse prigioniera in una gabbia di vetro, in primo piano nel Parco delle illusioni. E poi ecco La mia Liguria, dove le campiture astratte, nel fulgore della luce, riescono a comunicarci lo sciabordio del mare, il soffio lieve della brezza, e quell’odore che emanano i pini, gli ulivi, il corbezzolo quando vi batte il sole, quell’odore caldo, pieno, che pizzica le narici e scalda il cuore.
About me
Carlo Vercelli nasce a Savona nel 1956. Si trasferisce a Milano con il papà a seguito della morte della mamma, all’età di 10 anni.
Dopo la maturità artistica e la laurea in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, il su percorso accademico continua con la frequentazione assidua di un ambiente culla della Scapigliatura Lombarda, la Famiglia Artistica Milanese, dove il contatto con artisti del calibro del pittore Eros Pellini, lo scultore Renzo Zacchetti e il disegnatore Mario Uggeri, contribuiscono a rendere la sua una vita piena di sfumature, sia a colori che in scala di grigi, proprio come gli oli e le tempere che con pennellate decise ed energiche imprime sulle tele.
Le sue opere sono un autentico diario visivo, un viaggio alla scoperta di un universo in continuo mutamento, riletto in una personale chiave espressiva. Un approccio che svela una profonda ricerca soggettiva, ma anche il desiderio di trasmettere un messaggio intimo e ricco di valori.
Il suo carattere riservato lo porta a preferire i pennelli e le mani che definisce” i suoi strumenti primari” al posto delle parole.
L’artista attinge alla tradizione della nuova figurazione. Gli elementi visivi astratti vengono quindi manipolati e contaminati per arrivare a un’espressione figurativa.
Nel corso degli ultimi anni ha arricchito la sua esperienza anche come critico e storico dell’arte, portando l’arte anche in trasmissioni radiofoniche e dirette social.
Ha al suo attivo numerose collettive e personali.
Istruzione:
- Maturità artistica, Milano
- Diploma di Accademia di Belle Arti - Pittura, Milano
Esposizioni personali principali:
- 1985: Milano, “la difesa della mia mente” Galleria Il Mercante, (personale);
- 1989: Garbagnate Milanese, Villa Gianotti, (personale);
- 2010: Milano, Le Barrique, (personale);
- 2011: Garbagnate Milanese, Io ti guardo, Corte Valenti, (personale);
- 2014: Garbagnate Milanese, Galleria La Saletta, (personale);
- 2017: ATA Hotel Varese, con Passepartout (quadripersonale);
- 2018: Aprile Galleria Oldrado da Ponte, Lodi, (personale);
- 2019: Venezia, 1-15 ottobre: Il labirinto delle emozioni, con Visioni Altre (personale);
- 2019: Spinea, oratorio di Villa Simion, 25 ottobre – 10 novembre Il labirinto delle emozioni, con Visioni Altre (personale);
- 2020: 15 – 29 febbraio: Milano, antologica con Passepartout Unconventional Gallery (personale con circa 60 opere);
- 2022: Novembre: Milano, Galleria d’arte Bagutta, con Aroundart (bipersonale);
- 2022: Novembre: Padova, Arte Padova, stand in proprio con altri due artisti;
- 2023 Marzo: Milano, Studio Zecchillo, ex Piero Manzoni, (personale);
- 2023: Aprile: Savona, Visionarietà cromatiche, presso Gulli Arte, (personale);
- 2023: Giugno: Bassano del Grappa, Palazzo Bonaguro: Percorsi paralleli: l’arte e le sue visioni, (quadripersonale);